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Orologio e Calendario
I fuochi di luglio

Inviato da  Francesco Urru Data 31/3/2010 8:00:00

Da Sebastiano Chighini ricevo e volentieri pubblico quanto segue:
I fuochi di luglio
Abbiamo assistito, nei giorni del 23 e 24 luglio, alle modalità con cui, il fuoco ha manifestato la sua natura e
la sua antica fisionomia. Infida e implacabile, nel suo volto assurdamente attuale; segnato nei mass media e
nell’opinione pubblica, da categorie culturali ormai troppo ancestrali per distogliere, dai nostri occhi la
troppa o estrema facilità con cui ha prodotto una devastante distruzione di compendi, umani e naturali.
Continua

Son trascorsi secoli da quando il fuoco era l'assassino, il seminatore di tragedie. Dove la cultura del fuoco era
la parodia viva in terra, dell’inferno. Sempre presente a ricordo del “grande teatro dei tormenti”, le sue
“rappresentazioni agghiaccianti”, argomentava Camporesi, da finissimo osservatore, son divenute desuete,
“la lunga trionfale stagione” delle fiamme giunge ormai a termine.
In effetti, oggi non spaventa più, dominatore della scena cristiana per duemila anni, l’inferno figurato, è un
punto di riferimento desueto. Indispensabile nell’Europa medioevale e moderna, protagonista
d’innumerevoli drammi spirituali, collettore di terrori e di spasimi; inesauribile deposito di angosce e di
incubi; potente macchina di condizionamento; continuamente perfezionata e aggiornata durante i secoli.
Nelle sue rappresentazioni odierne dunque è solo una creatura agonizzante e l’accanimento terapeutico per
ridestarne i fasti, non è minimamente capace in termini moderni, neppure di allarmare uomini e donne.
Proprio mentre sul fronte del fuoco ci si accorge che gli inferi, hanno senso solo in rapporto all’alto, come la
lucidità, la chiarezza ha una sua realtà nella prospettiva delle tenebre. Anche per il fuoco i viaggi dell’uomo
verso l’alto, le sopravalutazioni dell’alto, hanno reso desuete e inutili le discese verso il basso, sul terreno.
Cosi ci appare il presente, e si sa quando un inferno si chiude, anche il paradiso entra in liquidazione.
La tensione con cui ci si è avvicinati all’inferno delle fiamme di luglio, non si palesa come uno dei gravi
problemi che aggredisce in profondità le coscienze.
In Sardegna quello degli incendi estivi, salvo alcune immagini davvero drammatiche, mostra ancora una
forma nei suoi segni caricaturale. Non riesce più ad avere il volto dal passato antico, non atterrisce più. La
descrizione dei sermoni medioevali, diciamolo è divenuto un paradigma stantio, “attivo” per la cronaca dei
mass media e per “i poveri cristi”, sintonizzati con quel passato.
Non trascuriamo, nè sottovalutiamo gli attimi brevi e dolorosissimi, che sono stati per tutti, né quello che
hanno provato a poca distanza, le persone morte, i feriti, i tanti animali bruciati, lo spavento di anziani e di
bambini, in quei giorni di luglio.
E’ del dopo, di ciò che del resto abbiamo successivamente visto tornare, che ci vogliamo occupare, come una
replica estiva, quasi esausta, con le sue forme ripetitive, di impotenze varie, di lassismi, di dormitori, di
abbandoni, di scetticismo.
Crediamo proprio a partire da tutto ciò, sia utile riflettere. Credere non più possibile vederlo ancora in questo
modo. Soprattutto sono convinto, oggi abbiamo strumenti culturali per controllare le desuete paure, ma
soprattutto guardare e non rimuovere lo sguardo ripetitivo e coreografico dei suoi disastri.
Rivedere e considerare statici i problemi o le tante facies che questi ci propongono, appaiono come il
bisogno di una condizione culturale ben più ampia da dipanare e da svolgere.
Considerando meglio gli studi, la razionalità, la conoscenza, la tecnologia per scrutarne i suoi
comportamenti; la consapevolezza, per definirne la sua natura, la tutela e la nostra sicurezza, per
circoscrivere una protezione efficace, in maniera assai più chiara cioè : coordinata, contemporanea,
tempestiva per aree urbane e territori, ci pare un necessario passo avanti.
Chiarendo quel che la conoscenza del fuoco, dovrebbe rendere: non più una situazione routinaria ed un
disastro da evitare.
Scomporre e collocare staticamente sul terreno, la sua duratura pericolosità, senza farsene soggiogare,
contrastarne la sua complessa natura, evidentemente non può che significare, tollerarne sempre meno le sue
manifestazioni “secolari”, sostituire a quella immagine che non turba più nessuno, un altra.
Dovrebbe essere di dominio pubblico che del fuoco se ne possono conoscere ormai gli aspetti tecnici, la sua
natura processuale, i suoi duraturi e deturpanti effetti. Al fine di apprestare una difesa attiva dai disastri, se
ne può misurarne l’intensità. In senso tecnico la curva di rilascio termico (energia termica misurabile), la
prospettiva dell’incendio (cioè quantità di variabili presenti nel focolaio dell’incendio e le sue direzioni
evolutive), livelli prestazionali (valutazione quantitative e qualitative nelle dinamiche territoriali,
agropastorali e vegetazionali), il processo performativo che induce (agli operatori in campo), confrontarlo
con mezzi e tecnologie secondo gli obiettivi da raggiungere), lo scenario che ogni incendio può determinare
(le sue previsioni pedologiche, orografiche), le dinamiche climatiche, tecniche, umane. Qualificabile per
eventi chiave (che fanno un incendio unico ed analizzabile nelle sue ripetute caratteristiche), ci permette di
disporre delle valutazioni. Apprestare con esse uno sfondo previsivo, per mezzo di azioni appropriate,
secondo la considerazione dei diversi parametri di rischio e la pericolosità in campo, credo che qualifichi
davvero, la sua natura odierna e quegli aspetti che lo traggono via dalla metafora medioevale.
“Apprezzare” dunque con gli aspetti specialistici e scientifici la conoscenza del fuoco, definirne la sua forma,
comporre ciò di cui esso si ordina, le tante fasi analitiche e previsionali, così come le circostanze favorevoli e
contrarie alla sua diffusione, le contiguità, le simmetrie e le asimmetrie con i tanti fenomeni che gli fanno da
corollario, affinché esso non sia più atteso “passivamente” a disastri come quelli dei giorni di luglio.
Definibile nell’oggetto della combustione, chiamandosi di chioma, radente, sotterraneo etc.. crediamo debba
perdere definitivamente la sua astratta e ancestrale e generale raffigurazione, per apprestarne una, almeno
comprensibile, nella contemporaneità, quella di un evento complesso, non solo nella sua chimica.
Ci siamo impegnati in questo testo, affinché si proietti una nuova e più qualificata idea di ciò che significa
tutela del territorio di fronte agli incendi.
Tale da indicare modalità e mezzi utilizzabili, a seconda dell’intervento che si appronta; non più
improvvisata truppa, tantomeno caustica occasione di esecuzioni sommarie, tanto crediamo siano cruciali per
la sua conoscibilità, gli aspetti collaterali (davvero medioevali) come l’odio (spesso sbrigativo) sui piromani.
La fiducia che ci anima e che se esso, se sarà correttamente affrontato e conosciuto in uno schema, quello
previsivo e soprattutto dell’intervento tempestivo. Adeguato al territorio ed ai suoi attuali usi. Non potrà
essere più la maledizione degli avi. Perché oggi per esso non solo, siamo capaci di operare delle predizioni,
disegnare degli scenari, lenti o rapidi, inconsueti e specifici, presso ogni luogo in cui lascia la sua traccia.
Se il fuoco torna ed è tornato con lo stesso passo di sempre, percorrendo e scrutando gli accadimenti del
passato, (tutti abbiamo visto le fiamme percorrere le tracce del 1983), proietta nelle sue direzioni costanti e
immutate, la ridefinizione della sua veste medioevale, rendendosi davvero antico e immobile. Tutto ciò
mostra tutte le nostre debolezze, da memorizzare e capire per intervenire, prima di tutto sulla sua natura.
Dunque c’è un quadro culturale e documentario degli incendi attuali, da ridefinire, perche esso è nuovo.
Sulla base di questo va chiarito, non è sufficiente il suo apprezzamento inalterato. Non bastano più le
mappature, i rimborsi dei danni, il parziale ripristino di potenzialità economiche, ambientali, è qualcosa di
più complesso che ci deve muovere etc. Queste sono fondamentali per chi è già in sofferenza, è evidente, dal
momento che diviene cruciale ogni centesimo di euro, su una economia già gravemente prostrata, ma sono
gesti e tuttavia passi di breve periodo.
A cosa servirebbe infatti tutto ciò, se non si apprestasse appena dopo, il cambio nelle valutazioni e le
definizioni pragmatiche, capaci di tutelarci e di tutelare il patrimonio boschivo e naturalistico,
permanentemente e soprattutto efficacemente ? Cogliere nella sua più moderna pericolosità le nuove e
basilari condizioni dell’esistenza nostra e del monte, significa avere equilibrio dello sguardo, sulle tante
fisionomie del disastro prodotto, dare senso ai danni ricevuti dalle piccole comunità sfregiate nel loro corpo
vivo, di storie e di identità.
Un incendio non può ritenersi una routine, proprio a partire dai suoi effetti devastanti e indotti da tante
dinamiche, che hanno trovato una prima sintesi critica nelle polemiche sul mancato intervento aereo, è
doppiamente deformante.
Dal momento che esso sul piano diretto (le misere economie locali) come su quello indiretto (le loro
programmazioni dello loro sviluppo), sul piano culturale (l’irrazionalità e il degrado, oltre all’accrescersi del
pessimismo) rappresenta l’insieme di un danno devastante.
Rivedere le più generali circostanze culturali, organizzative, etc che in questi territori si accompagnano, ad
un evento semplificatore delle tante e molteplici complessità presenti sul territorio, come può esserlo un
incendio gravissimo, ci pare quindi necessario.
Prima argomentazione
Intanto occorre inserire il fuoco almeno in Sardegna nel rango delle calamità gravi al pari degli uragani, dei
terremoti, allo stesso modo di come e quanto possono farsi deturpanti questi eventi. Non appaia scontata
elucubrazione, pertanto sistemi di allertamento e di informazione, devono superare la soglia pur apprezzata e
avvertita, ma non correttamente interpretata, proprio in quei giorni di luglio.
I mass media debbono togliere ancor più dalla abitudine i suoi effetti. Così come nell’apprestamento serio di
iniziative varie di natura preventiva, diviene sempre più fondamentale far crescere una maggiore
sensibilizzazione ed educazione ambientale, indurre una maggiore correttezza ai comportamenti, di
istituzioni, pubbliche, private, di adulti, giovani, etc. e consolidare l’obbiettivo della fuoriuscita dalla cultura
del fuoco.
Cambiamenti climatici, il surriscaldamento del pianeta richiamato proprio dal presidente dell’Onu, sociali
nella loro globalità, propongono sempre più, ciò che l’accidentalità dei mutamenti, pari alle repentine
inversioni del vento, del caldo, dell’umidità etc.. Fenomeni altalenanti ed esagerati, ci segnalano ormai tutti i
giorni, la necessità di un cambiamento culturale, anche per il fuoco. Se si possono prevedere, l’insorgere di
malattie come peronospora e oidio nei bollettini meteo agricoli, devono dunque entrare nel meteo e
soprattutto nelle copertine e non solo nelle prime pagine, le conseguenze disastrose degli incendi. Se altre
aree hanno il centro sismico a diretto contatto dei media, in Sardegna lo deve avere il centro di
coordinamento della protezione civile e antincendio (altro che privatizzazione).
Il superamento di questa figurazione culturale del tema del fuoco, ha naturalmente altrettanti suoi caratteri
informativi e comunicazionali ed ovviamente amministrativi, sanzionatori, organizzativi.
Così come, attività nuove di ricerca e di studio debbono far crescere istanze preventive e di predisposizione
corretta all’emergenza, come base fondamentale per l’apprezzamento critico e attuale di tutto ciò che ruota
intorno all’incendio. Finalmente prendere a ritenere ciò che pare impossibile invece possibile.
Non possiamo continuare a trovarci dentro una scenario alterato, entro cui manca l’allarme, manca la
dimensione del disastro realizzato, manca la dimensione della gravità di queste e di altre vicende, manca la
valutazione complessiva di ciò che rappresenta il fuoco, che invece i mass media possono qualificare presso
l’opinione pubblica, in questo senso serve un nuovo linguaggio (non banalmente urlato) che ne caratterizzi il
peso.
Seconda argomentazione.
Un'altra categoria da rivisitare, di questa nuova e necessaria ridefinizione di una nuova cultura di contrasto
degli incendi è la chiarezza con cui sono stati scelti i mezzi aerei per gli interventi, cosi come occorre
rivedere le variabili per determinare le priorità, del loro intervento1.
Non sottovalutiamo ciò che è divenuto sempre più in questi anni, il ruolo dei mezzi aerei. La loro utilità, si è
resa evidente in un territorio ormai non più percorribile, dagli uomini e dai mezzi, così come appare ancor
più doveroso sul piano della virulenza incendiaria, quanto la loro funzione spesso sia stata determinante, nei
luoghi impraticabili ormai rispetto al passato,.
Registrata per altro nei documenti della pianificazione antincendi previsti per il triennio 2008 – 2010 in cui si
ribadisce “L’efficacia delle tecniche di lotta dipende in larga misura dall’intervento dei mezzi aerei cui si
farà specifico riferimento nel successivo paragrafo 7.4.6.”2 (… Paragrafo 7.4.6 - Per fronti di fuoco molto
estesi e in zone ove non è possibile operare con le autobotti, vengono impiegati i mezzi aerei, che agevolano
il lavoro di spegnimento delle squadre a terra, scaricando la sostanza estinguente (in genere acqua)
estinguente direttamente sull’incendio.” (Vedi pag. 101/104).
Sono gli strumenti che hanno assunto presso l’opinione pubblica e anche presso gli addetti ai lavori, una
funzione centrale nel coordinamento complessivo, sul campo tutti lo abbiamo apprezzato e temuto, vedendo
il declino della predisposizione e dello schieramento di forze a terra e per la sua sproporzionata strategia
(economica e di esautoramento delle competenze) di opposizione al fuoco.
Annessa alla loro funzione, lo sono le attività antincendio di avvistamento e di pronto intervento, davvero
prioritarie, con cui debbono rafforzarsi, le attività di prevenzione e di controllo del territorio. Segnalare con
un uso efficace delle tecnologie avanzate, sempre più indispensabili, quali i sistemi di telerilevamento, o
altri, di osservazione qualificata per l’avvistamento e le pratiche di segnalazione rapida degli incendi. Capaci
di un accresciuto grado ed efficacia della consapevolezza di tali rilevamenti, nella loro rapidità di intervento.
La tecnologia si associa troppo frequentemente allo spreco, anche su questo occorre invertire un senso
comune diffuso, perché essa deve farsi invece un ausilio strategico sicuro. Le lacune tecnologiche e
specialistiche, logistiche vanno colmate, tale da produrre un recupero della fiducia moderna per la sicurezza
di tutti, coniugare lo scenario di una nuova cultura, senza dover assistere a disastri e a simil commedie, ci
pare cruciale.
1 Presidenza del Consiglio dei Ministri Dipartimento della Protezione Civile Ufficio Attività Aereonautica
CONCORSO DELLA FLOTTA AEREA DELLO STATO NELLA LOTTA ATTIVA ALLO SPEGNIMENTO
Disposizioni e Procedure Documento a firma di Bertolaso del 27 maggio 2009 www.protezionecivile.it
2 Dal Documento di Pianificazione degli antincendi boschivi dell’Ente Foreste della Sardegna pag. 101/104 e 102/104
Sullo scandalo metallico
di armi in uso e in disuso
a guidare la colonna
di dolore e di fumo
che lascia le infinite battaglie al calar della sera
la maggioranza sta
recitando un rosario
di ambizioni meschine
di millenarie paure
di inesauribili astuzie
lungo un facile vento di sazietà
Se tutto ciò non ricade in una azione coordinata, sovra comunale, integrata e legata ai luoghi, ha poco senso.
Oltre ad una nuova e rinvigorita tutela del territorio, la difesa del suolo e la lotta agli incendi boschivi deve
strutturarsi e prendere vita su iniziative che guardino ai disastri ambientali, per mezzo di tavoli, cioè
inquadrate consultazioni permanenti dei vari enti competenti.
Ma più che una disamina dettagliata della pianificazione e prevenzione, constatiamo ed è gravissima la
discrasia tra lo stato dei danni e le possibilità dell’intelligenza, tra i risultati disastrosi e i mezzi oggi a
disposizione dell’uomo, per questo la tecnologia deve essere più che un ausilio.
La presenza dell’intervento aereo, più di tutto avrà valore, dentro un coordinamento delle azioni, perché è
stato detto che non si può morire in questo modo, cioè per mezzo di molte irrazionalità che accompagnano la
manifestazioni di un incendio.
Verità evidente che tuttavia non si fa pratica, non diviene l’espressione necessaria per chi sta in campagna e
per chi ha responsabilità istituzionali. C’è un romanzo sperimentale di un nostro scrittore che è stato
intitolato le Ceneri del Montiferru, la montagna gemella dell’oristanese, in cui un vero evento su cui tutti
hanno voce, prendono parola, accade dentro l’incoerenza di tutti, essa è più di una metafora letteraria.
Solo una razionalità plurima, una nuova intelligenza sociale, un impianto coeso, deve prendere in mano la
situazione, oltre lo sconforto, spingendo ognuno a compiere il proprio mestiere. Che non può più avere i
suoi picchi nella gestione aggressiva del proprio particolare, né in un acritico rifugio nelle competenze locali
o settoriali.
Parlo delle competenze istituzionali, che non vedono il Monte Arci come compendio, di natura e cultura,
passata e presente, dunque bando ai compartimenti stagni con cui la provincia non ha competenze, l’Ente
foreste è distante dal Corpo di vigilanza ambientale o dai Vigili del fuoco, o dalle Amministrazioni pubbliche
in genere, dai cittadini; un cambiamento necessario deve farsi strada, in questi disastri e non attenersi a ciò
che si prescrive dall’alto autoritativamente.
Su questo la modularità deve superare i particolarismi, la interoperabilità deve essere efficace, così come la
capacità di leggere i dati territoriali diversificati; gli effetti delle azioni, debbono avere nelle finalità, una
fruibilità rivolta agli utenti finali, che del monte vivono e godono del suo valore, aperta agli utenti
occasionali, secondo terminali diversificati e dunque capace di gestioni integrate.
Non è inutile sapere che l’aereo, giunge un ora e mezza dopo dal decollo, per svolgere il suo potenziale
intervento. In questi anni è cresciuto il suo ruolo, fondamentale nello schieramento, divenuto decisivo e
prevalente nelle forze antincendio. Non dimentichiamoci quanto esso si basi, prima di tutto sulla
disponibilità di aeromobili, ma non ultima soprattutto sulla disponibilità delle infrastrutture necessarie per lo
schieramento sul terreno, provviste cioè della attrezzatura logistica necessaria.
Su questo abbiamo da osservare che non si capisce come possano determinarsi le priorità di invio dei mezzi
aerei, date le previsioni climatologiche e meteo (pur in cima alla lista dei criteri), è difficile che esse sole
abbiano a decidere l’importanza prevalente per una distinta condizione geografica (nazionale) ove
prevalevano in maniera pressochè identiche (nella giornata di giovedi 22 e venerdi 23) le condizioni meteo,
lo erano in quei giorni per Toscana, Lazio, Sardegna, Calabria, Puglia e Sicilia.
Dunque ciò, non basta per scegliere. Tantomeno avrebbero potuto salvare il Monte Arci, il criterio
successivo, indicato nella valutazione di priorità dell’intervento aereo; cioè il criterio dato dal Bollettino di
Suscettività o l’altro della Base storico statistica, che deponeva una distanza di 26 anni dall’ultimo
devastante incendio.
Ciò che verifichiamo e che nella scaletta decisionale, il nostro compendio turistico ambientale straordinario
del Monte Arci, aveva un indice pressoché pari a zero. Tale è il parametro che si può ricavare dalla lista, che
avrebbe dovuto dare priorità alla sua salvezza. La scelta cadde di invio dei mezzi aerei infatti su incendi
esplosi in altri territori, ove si sono evidentemente registrati, incendi più recenti.
Se così non fosse, occorre riflettere, su come questi criteri agiscono, perché visti così, quei parametri fanno
ardere per primi i boschi “remoti”, sui quali vige il più antico rispetto. Dove l’aereo (in questi anni
individuato strumento tecnologico fondamentale) giunge solo a seguito dello spegnimento degli altri focolai,
dunque ecco perché il Monte Arci finì in coda all’elenco.
Rincresce e non poco vedere i nostri luoghi distrutti, quando la scelta, non ha ritenuto il nostro Monte affatto
prioritario, tra i tanti e concomitanti incendi.
Francamente, la loro disattesa distrazione verso altre località del continente, crediamo o meglio ci fa ritenere
che la presenza degli aerei i giorni 23 e 24 si sia affidato agli interessi in campo (alle contingenze passate e
presenti), e purtroppo per noi, sia divenuto notevolmente decisivo, nella priorità dello spegnimento, il peso
politico della classe dirigente territoriale, evento ben più grave della desueta metafora medioevale.
Questo naturalmente susciterà delle polemiche, ma evidenzia la debolezza politica dei vari livelli
istituzionali. Quanto ama il monte, la città di Oristano?
Per essa è solo un mito di agiografi, di cantori, aedi lamentosi? Buono per essere goduto privatamente,
spogliato dei suoi valori e sottratto agli stessi abitanti? A questa classe dirigente e ai suoi atti, occorre
amaramente ammetterlo non subentra neanche l’azione surrogatoria dei dirigenti e responsabili della
pubblica amministrazione, anch’essi oristanesi. Ecco allora che la debolezza politica e culturale si fa di
tutti, è stesa come tanti piccoli fazzoletti, lungo i chilometri di boschi, pascoli e aziende incendiate.
Non sono capaci neanche le dimissioni, provinciali o dei vertici dei vari enti, a dirci con precisione come
sono suddivise e spezzettate le letali responsabilità. Anche queste si perdono in un poco divertente
rimpiattino, faccio riferimento solo ad es. alla viabilità di strade che non ci sono neanche in Afganistan. In
un silenzio che può spiegare, almeno perché se uno alza la voce contro l’altro, ciò possa bastare per sentirsi
la coscienza pulita, o c’è una istituzione terza, rispetto alle altre due su cui rimbalzano le responsabilità?
Se queste considerazioni sono corrette, allora diciamo che per la classe dirigente oristanese, si deve aprire
una nuova battaglia politica. Oltre che per essere presente a se stessa, apprestare categorie nuove, per vedere
il fuoco sotto una lente nuova, organizzare presso le istituzioni preposte, un nuovo e mai strutturato
coordinamento. A partire dall’Aereoporto (ancor prima che apra sorti progressive elettorali) deve e doveva
essere provvisto di mezzi efficienti e impiegabili, come la presenza di uno o più Canadair ed Elitanker
(funzionanti), fino alla operatività superiore alla attuale.
Terza argomentazione Il cambiamento culturale
Andando oltre gli aspetti strettamente specifici, di quella macchina che non ha invalidato l’antica metafora
medioevale, tra le diverse cose che sono mancate, sugli incendi del 23 e del 24 luglio, sono soprattutto le
pratiche e le tecniche moderne per poter riconoscere le modalità di questo gravissimo evento.
Perché è vero che nel giro di 15-20 anni cambiano gli scenari, con cui noi abbiamo a che fare con il fuoco;
crediamo sia soprattutto proprio questa perdita di memoria, (cos’è esiste una memoria del monte? ) abbia
fatto e faccia noi e il nostro Monte: uno dei luoghi e degli spazi troppo vulnerabili.
Manca specie nella sensibilità locale, la conservazione della memoria del monte, dei resti di epoche lontane,
come anche delle testimonianze recenti, più volte in questi anni ci siamo scandalizzati, alla distruzione di
tasois e statsius.
Si tratta di scenari conservativi e di tutela a cui non abbiamo saputo apprestare risposte, lasciando le profezie
distruttive divenire rapidamente concreti presagi. Quando la responsabilità non da alibi a nessuno, serve
ragionarci su, non per accusare ma per dar peso ai gesti necessari.
Così come c’è una risultanza di politiche, amministrative e non, che fanno il Monte vuoto e abbandonato da
protezioni. Di permanente queste hanno spesso, e si vedono, gli ostacoli alla sua gestione e tutela. Quindi
non dobbiamo cogliere del fuoco modalità specifiche e complessive davvero nuove per evitare i disastri che
questo amaramente consegna alla riflessione.
Quanto è costato al contribuente, il rimboschimento e i boschi di Is liureddus, e S’assuoi, Simioi, i danni
subiti dalle aziende di Usellus e del territorio di Villaverde e di Pau, i non pochi ettari del comune di
Villaurbana. Quanto sono costati questi frutti di una vita di molte famiglie, patrimonio di investimenti, di
emozioni, di ricordi, della civiltà dei gruppi umani? Non diteci quanto stanzierà la Regione, né gioite dei
soldi del governo, tantomeno sarà la legna tagliata, a sostituire il valore di quel patrimonio. Avremmo mai
davanti a noi i costi di questo e degli altri incendi?
Nell’apparato antincendio, ci sono come in passato strutture e mezzi impressionanti, che si accomunano ad
adempimenti amministrativi spaventosamente lunghi, istanze e fasi prescrittive di pratiche lunghissime,
risorse umane non utilizzate o non utilizzate al meglio, sempre e stabilmente in bilico, contenziosi
contrattuali sempre incombenti etc. Sono le vicende che assieme costituiscono le dinamiche specifiche e
locali, fatte di filtri tardivi e di zavorre burocratiche, azioni sindacali, comunicative e sociali che possono e
debbono essere riviste, nella manifestazione di un incendio ?
La fase determinante dell’avvistamento, prevede un apparato di piani, mezzi e uomini di allertamento
straordinario, è bene sottoporlo a verifica, dopo l’incendio di quei giorni, non si tratta solo di maquillage.
Una voragine di denaro del quale l’opinione pubblica dovrebbe conoscere i numeri, talvolta non viene
sottoposta a riprova di efficacia.
Coltivando tranquilla
l'orribile varietà
delle proprie superbie
la maggioranza sta
come una malattia
come una sfortuna
come un'anestesia
come un'abitudine
per chi viaggia in direzione ostinata e contraria
la maggioranza sta
Il temperamento delle proteste sociali ottenuto per mezzo di una così consistente cifra economico finanziaria
spesa in cantieri forestali, non è adeguatamente rispondente ai valore che si dovrebbero custodire (c’è una
corte dei conti degli incendi?). Occorre andare oltre la perpetuante retorica e ipocrisia tipica di queste
situazioni, per capire come e meglio si possa ottenere da tutto ciò.
Non possiamo incredibilmente aspettare il caso, per conoscere l’evoluzione di un incendio, le previsioni
debbono essere sul campo e possibilmente consultabili in loco, lo studio delle dinamiche degli incendi
crediamo sia la nuova frontiera. Per economizzare risorse mezzi e soprattutto territorio, servono sistemi
previsivi nuovi. Ovviamente in mano al sistema gestionale della sicurezza antincendio, prioritario da
specializzare e responsabilizzare con i coordinatori delle operazioni a terra.
Le prescrizioni antincendio, le loro azioni sono fatte a tavolino, molte azioni e decisioni invece debbono
essere frutto dell’analisi sul campo, sul terreno. Non si tratta solo della data di inizio della attività
preventiva, ma delle azioni con cui si misurano le ipotesi e le scelte apprestate prima e durante gli incendi.
Settore per settore del territorio, le verifiche e i controlli sulla prevenzione effettuata, così come dovrebbe
essere fatta la certificazione di queste, da parte delle autorità preposte. Servono delle richieste documentali e
i controlli sul campo, dei vigili del fuoco, forse l’autorità meglio qualificata e moderna, per conoscere e
comprendere il fuoco. Dunque ad allarmare efficacemente sulla sua pericolosità non possono essere più i
teologi, o il loro antico linguaggio.
Le previsioni normative che inducono la compilazione di piani annuali di prevenzione comunale o di bacino
provinciale; in cui si sviluppa la stessa sequenzialità degli eventi per ogni territorio (divise in pre, durante e
post l’evento), offrono e ci fanno notare per mezzo di loro, quanto siano indispensabili i necessari mutamenti
sul campo, come debba farsi avanti una cultura nuova, deve invece opporsi nei luoghi di ogni disastro
ambientale.
Nel tempo il fuoco e la sua furia devastatrice permane semplificatrice e indifferente, come si sà. Non si tratta
soltanto di orografia, non accorgersi che oggi opera su un contesto di cambiamenti differenziato è discorsivo,
rispetto al 1983 (anno zero per l’assessore regionale) purtroppo non per le fiamme che hanno ancora avuto
devastato il Monte Arci, oggi il monte ha un'altra veste.
Curioso e strano, che l’incendio si fermi sui suoi passi, proprio dove giunse nell’83 (se spinto dallo scirocco
o dal maestrale poco cambia). L’interrogativo sta qua, da allora, da quei giorni, cosa e quanto è cambiato?
Cosa significa che il fuoco ritorni sui suoi passi? Dobbiamo chiedercelo tutti, anche se in molti lo sapevamo,
che una giornata drammatica avrebbe messo a nudo molte cose. Ci inquieta che possa vedersi quanto poco è
cambiato o che nulla è valso di quella esperienza, perché si evita l’interrogativo su come può tornare il fuoco
sui passi di 30 anni fa.
Noi crediamo di no, crediamo che occorra cogliere i dis nodias, (i giorni cruciali) più che una prevenzione
estemporanea, ci pare impossibile che la memoria del monte, non abbia un archivio, dal quale ricavare al suo
interno un algoritmo capace di spiegare che temperature, vento, territorio, fuoco e l’incoscienza degli uomini
fanno da amalgama a queste variabili, scrutare e avvertire come esse si associno in giorni unici della sua e
della nostra vita.
Il territorio in tutto questo tempo al contrario è mutato, come per altro esso è rappresentato dai vari e diversi i
cambiamenti sociali, che non accompagnano soltanto il nostro monte, ma il fuoco lo illustra.
Pur muovendosi contraddittoriamente tra modernità e tradizione le nostre piccole comunità, più che al
governo presente del monte paiono assistere passivamente, anche alla sua ultima despecializzazione
economica, il definitivo tramonto della monocultura ovina. Oggi non impegna più le polemiche, di una sua
prevalente e unica presenza nelle campagne, dopo aver vinto comincia a ridursi anch’essa, fa il paio con le
attività agricole come la cerealicoltura, la viticoltura, l’orticoltura, l’arboricoltura, o il trascorso artigianato
del legno che aveva nella montagna risorse e materia prima.
C’è una degradazione ecologica e antropica che si sta saldando, ed ora diviene degradazione culturale, le
comunità e le loro attività si terziarizzano senza sviluppo, così anche il monte.
Se i montanari sapevano che non bisognasse aggiungere, ma togliere per far sì che il monte respirasse, per
noi non può che essere un investimento il suo rispetto conservativo.
La minore antropizzazione, da tutti evocata, vuol dire minore presenza umana. Qui si deve vedere che non si
tratta però, di una assenza indifferenziata di allevatori, raccoglitori, semplici appassionati del monte, è una
assenza totale dell’uomo.
Il flusso della conoscenza di questi luoghi e dunque della sua protezione, in questi ultimi anni si è invertito,
da luoghi prevalenti di attività preagricole e pastorali o residue come la caccia e l’uccellagione, la raccolta di
frutti selvatici e di piccoli animali, denotavano una conoscenza minuziosa per spazi e tempi della montagna,
facendo una civiltà del bosco.
Carlo Contini affrescando la volta della parrocchiale, elesse l’umanità dei pastori, che sottraggono Santa
Margherita, alla selva, celebrando il rapporto profondo della comunità con la sua montagna.
Oggi la selva rischia di avvolgere la Santa, inutile tergiversare con la fine della presenza umana, se ne è
andrà definitivamente una cultura del bosco.
Che non è solo un dato vegetale, tramonta un modo di concepirlo, un modo di rapportarsi con esso, ogni
forma di relazione stessa che la comunità ha eletto con questa straordinaria risorsa. Cos’alto occorre vedere,
nella attuale presenza di anziani e di piccoli allevatori, come non si può cogliere l’estrema e duratura
difficoltà con cui le comunità esprimono l’ultima e minimale presenza, sul corpo agonizzante del monte.
Lo scenario necessario di una nuova cultura, si coglie quando si vede, quanta e quale sia davvero la volontà
politica e culturale, di favorire l’insediamento e la permanenza sul territorio, diciamolo francamente è in atto
un sequestro, una narcosi, che toglie il monte alle comunità, che ingabbia, dissuade e costringe
all’abbandono questo compendio agropastorale e forestale.
C’è in atto un programma, che prevede dopo la monocultura ovina, abbia ad insediarsi definitivamente il
lassismo e l’abbandono. A passi rapidi si procede, verso la scomparsa delle conoscenze e le competenze del
monte. Il paesaggio pluriforme, articolato, che abbiamo conosciuto agricolo, arboricolo e pastorale. Ormai
più che versare nella precarietà, pare se ne stabilizzi la sua scomparsa. La toponomastica di pabas, costas,
cuccurus, brazzus, bruncus non sembra sia più il corpo della montagna, indica la fisionomia di un figura
abbandonata amorfa, che perde i suoi lineamenti conosciuti.
Del nomadismo e del seminomadismo, che aveva strutturato con i capricci del clima, in un regolamento
d’uso del monte, non si ha più traccia. Da tempo le rivalità o gli scambi comunitari come per Monte Cresia,
in cui la comunità di Villaurbana gestì, barattò la sua salvezza, non sa più trovare il patto, l’accordo con le
altre comunità del campidano, ormai sparisce anche il ricordo.
La già scarsa antropizzazione dunque, si fa davvero strutturale, la povertà e la precarietà di strade, percorsi,
ponti, passi, guadi, appartengono invece stabilmente a questo abbandono del monte.
Persino la viabilità e i collegamenti tra le comunità anche quelli più naturali, della montagna li abbiamo visti
tragicamente e scarsamente integrati, i rischi e l’impraticabilità del reticolo stradale, dice che l’isolamento
continua a rimarcare la pochezza di attenzione per un patrimonio indistinguibile nei confini amministrativi.
Tantomeno si è capaci di cogliere, dove si annidano incentivi e vincoli strutturali alla permanenza umana,
nessuno stimola o sostiene, il dato di una nuova presenza umana in montagna. Tanto meno c’è una apertura
alla necessità di assicurare per mezzo di associazioni di consumatori, gruppi di consumo, o forme simili, la
stabilità del reddito delle aziende sul monte.
I Gruppi di acquisto solidale (usate la formula che vi pare) potrebbero dare consapevolezza, diffondere il
valore della condivisione (di opinioni, di esperienze, socialità), per riappropriarsi dei sapori veri, di carne,
frutta e verdura e di tutti i prodotti della terra.
Il risparmio e la salute, la riduzione degli sprechi, la ripresa del contatto con i luoghi che producono il cibo, e
con la terra su cui crescono, fa riprendere anch’esso possesso e identità dei luoghi, non è questo il nodo
cruciale di un nuovo modello di sviluppo sostenibile.
Nessuno ha consapevolezza di quanto sul Monte Arci le aziende agricole stiano vivendo e stiano svolgendo.
Cioè nei luoghi in cui vivono le persone che il territorio lo possono tutelare e custodire. Figuriamoci se
all’ordine del giorno compare la nuova tessitura, la trama di una nuova frequentazione del Monte, serve una
cultura nuova!!!
Una indicazione significativa, potrebbe essere sufficiente nella nostra comunità Villaurbana (1800 anime
circa), non c’è più una persona che fa il formaggio in casa, ci viene da dire si eclissano stabilmente ormai
anche le competenze.
Quella cultura andata, poneva la natura sotto una lente frequentata da figure e competenze multifunzionali.
A definirne la sua conoscenza e il suo valore, sul piano pluridisciplinare, praticamente era la vita stessa di
uomini e bestie. Entro di esse erano vistose pedagogie e praticità antiche, che facevano una conoscenza
strutturale in buona parte ancora utile.
Oggi però, parlare di porcari, pastori, carbonai, uccellatori, però significa rivolgersi ad una era geologica,
parlare di qualche millennio fa, eppure erano loro gli attori che hanno lasciato e sedimentato tracce di un uso
rispettoso del monte.
Oggi il bosco è divenuto altro, il privilegio ma anche onere, occorre dirlo, solo di alcune figure di
frequentatori: taglialegna, braccianti agricoli, cacciatori, pochi raccoglitori, ultimi veri e ormai unici
“conoscitori” dei boschi. Poche altre forze dobbiamo contarle come mosche bianche.
Non è scandalo ritenere che mancano le figure utili al monte, mentre si presenta e si consolida invece sempre
più sulle sue funzioni i divieti e gli adempimenti amministrativi, meglio dirli burocratici. Una pratica ed un
quadro d’uso che disegna e ripeto sequestra il Monte, affidandolo alle sole forze aeree e soprattutto alla
“spontaneità”, degli amministratori. Davvero inconsistente la loro opera, sul piano organizzativo,
amministrativo, finanziario. La loro irascibile difesa di questi patrimoni ha nel loro autoassolvimento la
risposta meno coerente, a questa nuova cultura, nessun dibattito, nessuna riflessione.
Accorgersi che il Monte si possa affidare agli aerei, senza predisporre a terra, sul terreno, una
organizzazione, stabile, permanente, rodata, sicura dei suoi doveri e delle sue finalità. Lascia il campo alla
stasi, affatto intimorita da un alto, che sul fuoco, mostra ormai una scarsa autorevolezza, compresi i pulpiti.
Dovrebbe far pensare, convincerci tutti del vittimismo con cui gli amministratori amano vedersi paladini
isolati delle scarse azioni accampate, in sua tutela.
L’assenza di lucidità sulla serie di adempimenti invece che essi dovrebbero attivare, li tradisce. Quando
dovrebbero essi stessi definire una nuova cultura, che ricordi o scriva adeguatamente la storia locale degli
incendi, cioè di quelle azioni che occorre considerare prima che il disastro si renda possibile,.
Cioè un bel po’ prima, che si celebrino le tragedie, serve porre in essere programmi attuativi antincendio.
Una nuova cultura indispensabile e “a modo”, per guardare alla pedologia del monte e dunque ad una
conoscenza della sua tutela e soprattutto alla conservazione dei suoi pregi. Su cui è ancora incisa la storia
delle tante comunità che con il Monte hanno stipulato un patto insostituibile di sopravvivenza fin dalla
preistoria, oggi rotto fragorosamente.
Basta guardare ai numerosi vuoti delle politiche rivolte agli operatori pubblici e privati, che incentivino o
reintroducano la permanenza di attività stabili nel monte.
Nel constatare il vuoto intorno a questa idea nuova di un cultura con cui dovremmo guardare al monte,
registriamo la mole di inadempimenti, ove tutti ci si ricorda ciò che non è stato fatto, e con cui tutti ci
lamentiamo del prossimo. Nessuno accende una visione nuova per questa straordinaria risorsa.
Mentre si allontana da noi ogni nuova pratica, e si stabilizza acriticamente un presente ove i mutamenti e le
novità non semplicemente vegetazionali, vengono raccolte dai piani di sviluppo e dalle azioni antincendio.
Serve una cultura nuova che faccia emergere le cose da fare concretamente, guardi alle scelte di natura etica
e politica, che dovrebbe accompagnare, l’azione complessa, reticolare, non più semplicemente “integrata”
perché ciò significa e tutti lo sanno, inconsistente e irresponsabile, sprecona.
Vogliamo predisporre per questo, una proposta che intende ridefinire o ricordare gli obblighi con cui
dovrebbero redigersi i piani comunali di protezione civile, al fine di scrivere per la prima volta, il piano
territoriale antincendio e dunque di protezione civile del Monte Arci.
Un piano che vede la rappresentazione passata, presente e futura di: opere pubbliche, strade, strutture
permanenti, cantieri, siti di biodiversità frequentazioni etc.; stabilmente e permanenti a difesa dei valori di
civiltà, ancora espressi dagli usi e dalle testimonianze delle popolazioni, che solo per qualche altra
generazione, faranno capolino sulla montagna.
C’è uno scoramento crescente, e non deve essere sottovalutato. Quando su questi territori si vede, rimossa e
derubricata la presenza dell’uomo. Prima dallo scoraggiante abbandono sistematico nella sua generalità, poi
condensato, da vere e proprie complicazioni delle numerose azioni che dovrebbero guardare prioritariamente
al valore ambientale e culturale di interesse regionale, della permanenza su questi luoghi.
Almeno e alquanto prima che nei piani antincendio e di protezione civile, la loro approvazione, dovrebbe
contenere in essi e vedere in essi inserita, nella stesura, quanto sia fragile e debolissima la attuale
frequentazione umana del Monte, dovrebbe essere la prima considerazione di questa nuova cultura. In
reazione agli effetti disastrosi, che essa induce sulla economia di sussistenza di queste comunità, sulla stessa
salvaguardia di questo compendio.
In questo piano dovrebbe avere un peso strategico, almeno tanto quanto, ha la definizione di ruoli, funzioni,
compiti e responsabilità delle autorità che dell’incendio hanno conoscenza moderna e concreta.
Così come non deve ritenersi un dato da “considerazioni introduttive”, un aspetto della su protezione,
obbligare le amministrazioni comunali nei cui territori ricadono gli interventi previsti, di vedersi certificate le
azioni indispensabili alle competenze di ognuno. Al contrario, invece si sappia quando si ha a che fare e con
chi, su questo territorio opera e non sia individuato come il nemico, ma si consideri fondamentale e base
strutturale per consolidare una nuova presenza sul monte.
Perché oggi è evidente come occorra nella chiarezza necessaria, ridare assoluta centralità al mantenimento ed
al potenziamento della compartecipazione ed al concorso organizzato di tutti gli attori. Sul monte, adesso si
dovrebbero attivare tutti i meccanismi virtuosi che liberino ruoli e funzioni per tutti, anche per i volontari.
Quarta argomentazione
Solo in un nuovo e certo più efficiente coordinamento si può vedere questa nuova cultura, ogni ente deve
capire e deve ripensare, le sue competenze, le sue responsabilità, in relazione agli altri. Dovrebbe essere
questo il primo atto riflessivo di fronte al disastro.
Tantomeno si concluda con il semplice scarico di responsabilità, si richiami con forza chi opera, e con quali
facoltà. Si realizzi il controllo con cui gli enti tra loro, si provano l’un l’altro l’efficacia collaborativa delle
azioni espresse, realizzate e non solo scritte su questi piani, ci siano le verifiche delle azioni effettivamente
compiute.
Avremmo amministrazioni che si sorvegliano a vicenda, così come potremo prevedere una autorità terza e
superiore che possa in qualche modo sanzionare, gli assenteisti. Cioè lasciando l’intervento all'Assessore
della difesa dell'ambiente della Regione Sarda, (speriamo non più all’anno zero) ad organizzare, avvalendosi
della collaborazione degli uffici suoi o dell'Ente foreste della Sardegna, apposite Conferenze di servizi, con
cui richiamarne l’approvazione e la attuazione concreta di questi piani locali.
Iniziamo nel comporre gli inadempimenti, dall’Ente Foreste, vero attore sul territorio, dispensativo di risorse,
ci chiediamo quanto esprime davvero la meticolosa rappresentanza dei valori che tutela?.
Non dimentichiamoci che la legge istitutiva attribuisce all'Ente le seguenti funzioni, ma non vorrei apparire
efficientista. Anzi inquieta o meglio dovrebbe inquietare se alla lettera a) dell’art. 3 si dice che esso deve :
amministrare il patrimonio silvo-agro-pastorale e faunistico assunto in concessione o affitto dalla Regione,
dai comuni e da altri enti pubblici o da privati, curandone la sorveglianza, la razionale manutenzione, il
miglioramento e la valorizzazione ed operando, di norma, sulla base di piani di assestamento forestale;
è del tutto evidente e non vogliamo entrare nel merito delle prescrizioni di legge e soprattutto delle
polemiche sulla sua gestione, si vada sul Monte e si verifichi se bastano queste prescrizioni per dire che è un
ente che va riformato.
Soprattutto nelle sue azioni tradizionalmente conosciute sul territorio, che vanno dalla percezione di questa
nuova cultura del territorio, fino all’apprestamento compatibile di una trama di percorribilità adeguata, alle
aree di sosta, alle pratiche silvoculturali, alla definizione di una specifica storia dei luoghi, fino alla
promozione ed alle tante pratiche agro-economiche ed alle tante iniziative educative e conoscitive del valore
del bosco, che rinverdiscano e diffondano i successi di iniziative simili per es. alla mostra dell’avifauna.
Gli enti locali. Non si scrive la storia del monte rispettando freddamente i dettami della legge n. 353 del
2000, con cui si sarebbero dovuti istituire e proseguire il tempestivo aggiornamento del catasto delle aree
percorse dal fuoco. E’ attualmente il principale dei doveri amministrativi… ma le impietose dichiarazioni di
Bertolaso (quando riferisce alla camera dei deputati sugli incendi) ci fanno scoprire che
“La regione Sardegna, al 30 settembre 2008, aveva completato solo nell'11 per cento dei comuni l'adozione
del catasto e solo il 21 per cento di quei comuni aveva redatto un piano di emergenza.”
Ancora Bertolaso “Segnalo che nella lettera che il presidente mi ha inviato questa mattina (dichiarazioni alla
camera dei deputati dopo il disastro) si afferma che su 377 comuni, 126 hanno oggi adottato il piano
comunale di emergenza e 296 sono dotati del catasto delle aree percorse dagli incendi.”
Il catasto fregio figurato, di molti altri contenuti, si spera redatto sulla base, quantomeno, dei dati presenti
nel Sistema Informativo della Montagna. Oggi tra l’altro curato di fatto dal Corpo forestale dello Stato, o
comunque reso disponibile presso i sistemi regionali. Il catasto dovrebbe raccontare qualcosa di più che
delle semplici mappe. Non si svicoli anche su questo, senza trarne le dovute conseguenze, cioè immaginare e
spesso pensare ancora che il fuoco cioè un evento complesso, sia un adempimento amministrativo e
burocratico degli Uffici Tecnici comunali. Al contrario dovrebbe essere il primo dei gesti con cui oggi
invece si può fare la storia degli incendi, la storia delle azioni di difesa di un patrimonio straordinario;
dunque non soltanto una mappa, ma una moderna memoria del monte.
Il Corpo di Vigilanza ambientale. L'art. 7, della legge n. 353 del 2000, anche per il Corpo forestale dello
Stato e con il Corpo nazionale dei vigili del fuoco, oltre a tenere in debito conto quali componenti
significative quali operai forestali e volontari, dovrebbero fare per valorizzare, compatibilmente con gli
ordinamenti regionali e nell'ambito della pianificazione regionale, la lotta attiva agli incendi boschivi,
dovrebbe vedere in Sardegna anche il corpo di vigilanza ambientale disporre autorevolmente uomini e mezzi
non formalmente preposti.
Dal momento che dall’Alto (il Ministero) avverte una evidente gestione della separazione delle competenze,
voluto superare persino, da un Accordo quadro sottoscritto in materia da diversi Dicasteri proprio lo scorso
anno, favorendo indovinate cosa ? “il coordinamento, l'uniformita' e l'ottimizzazione delle procedure
operative di intervento nelle attività di contrasto a terra degli incendi e definendo “chiaramente e con
certezza chi ne assume la direzione ed il coordinamento nel caso di soprassuoli prevalentemente forestati,
oppure prevalentemente antropizzati”.
Sono le parole di Bertolaso a riportarci per terra “soprattutto fra gli uffici territoriali del Governo (sottinteso
Prefetture, enti locali e Provincia) e l'amministrazione regionale, non vi è stata sempre quella sinergia e quel
collegamento” (…)
Sono dichiarazioni pubbliche che urlano, quanto manchi davvero o nò nella sua funzione cruciale il
coordinamento, su questo è lecito o nò attendersi atti concreti ?
Se dall’alto come dal basso, i piani locali antincendio o di protezione civile ai diversi livelli territoriali, si
devono ancora elaborare, prima ancora che essere coordinati e responsabilizzati, è argomento che riguarda
gli incendi oppure di che parliamo ?
Ben inteso non si tratta di cartacce, si tratta dei piani entro i quali deve essere contenuta ogni possibile
azione. Siano esse dirette o di supporto alla elaborazione ed alla adozione dei piani comunali o intercomunali
di protezione civile. Insomma vi è la necessità della previsione piena e fin troppo chiara delle competenze,
risorse, azioni, strutture, diretta alla salvaguardia della importanza dei valori ambientali, che abbia carattere
provinciale e locale.
Non si tratta soltanto e non si dovrebbe soltanto predisporre e far predisporre l'elaborazione di specifici piani
di emergenza per gli insediamenti, le infrastrutture e gli impianti ambientali, paesaggistici e turistici anche
temporanei, posti all'interno o in stretta adiacenza alle aree boscate ?
Dovrebbero finalmente essere occasione determinante per strutturare categorie nuove, principi e modalità
con cui improvvisare meno, la difesa di luoghi straordinari che non solo la natura ha custodito (il fuoco si è
fermato a 50 metri dalla madonnina di S’arangiu Aresti, cioè il cuore moderno del nostro versante).
Questi elementi potrebbero darci sufficiente indicazioni, almeno per quanto è necessario a definire un quadro
nuovo di azioni specifiche.
Ultima argomentazione
Sul piano strettamente funzionale, queste azioni ed ogni intervento non dovrebbe ignorare i cambiamenti
orografici, pedologici, vegetazionali, anch’essi resi visibili dai cambiamenti sociali e culturali dell’uso del
monte.
Si pensi a tutte le attività integrative per il prelievo della legna per es. quella necessaria ai forni del pane, con
cui il prelievo dal bosco e nel territorio prospiciente il bosco e le aree coltivate, favorivano una presenza
umana di controllo. Temperavano la crescita abnorme del sottobosco, ora ogni pratica è stata bandita ed i
controlli svaniti del tutto. Questo per dire che i divieti rispetto alle pratiche conosciute di prelievo, mentre
gli usi civici, dovevano essere adattati e resi più consoni alla difesa di questi patrimoni.
Le azioni appassionate di allevatori, agricoltori, raccoglitori, non si comprende perché siano ritenute
testimonianze troppo remote, per essere recepite davvero come pratiche silvicolturali autoctone, cioè capaci
oggi di assicurare la frequentazione dei sentieri, o di aree limitate anche attraverso i moris.
Ancora per poco, ma fra non molto non renderanno più l’idea della rete capillare “emica” di percorrenza
della Montagna. Da trama primordiale e umanizzante del Monte, essa è diventerà presto rappresentativa
solo dell’abbandono.
Oggi non si sostituisce, né si improvvisa come abbiamo visto (si veda alla data dei giorni prima e dopo il 23
e 24 luglio la strada da S’utturu e su cadru fino al secondo ingresso a Sedd’ anea), una nuova percorribilità
del monte.
Perché sebbene la rete viabile sia stata tracciata nella modernità, mancano le opere e i criteri per renderla
operativa, gli uffici tecnici sanno molto meglio di noi, cosa fare, per impedire, ciò che l’abbandono delle
strade invece rende assurdamente evidente a tutti.
Così se prendiamo in considerazione il sistema imbrifero, in passato le sorgenti erano delle bestie, mai del
bosco. Oggi possono essere del bosco e di tutti quelli che ad esso fanno riferimento. Questa idea eccentrica
dell’intoccabilità della natura, della immodificabilità dei biotipi, (epica di ambientalisti e cacciatori) non può
più negare, una necessaria manutenzione custodia dei mutamenti di ruscelli, sorgenti, fosse artificiali e
naturali. La rete di approvvigionamento idrico può dare un idea permanente delle protezione, se realizzata
con discrezione e sensibilità archittetonica (dunque non elettorale) ma costantemente in funzione; potrebbe
darci più sicurezza, oltre che una migliore e settorializzata difesa, potrebbe finalmente favorirne una stabile
struttura precauzionale, costantemente attiva su tutto il monte. Si replicherà che siamo all’anno zero ?
(col suo marchio speciale di speciale disperazione
e tra il vomito dei respinti
muove gli ultimi passi
per consegnare alla morte una goccia di splendore
di umanità di verità
per chi ad Aqaba curò la lebbra con uno scettro posticcio
e seminò il suo passaggio di gelosie devastatrici e di figli
con improbabili nomi di cantanti di tango
in un vasto programma di eternità)
Il corpo di vigilanza ambientale. Tragica parodia della concezione della modernità con cui si amministra
stancamente un patrimonio immenso di valori umani, territoriali, ambientali, faunistici, nel frattempo anche
planetari. Appare motivato dai pochi mezzi, ma anche da una balzana idea che sottintende una volontà
autoritaria con cui si vuole sequestrare il monte a tutto e tutti. Manca, si potrebbe dire nei suoi doveri di
base, cioè in quella cruciale azione che deve guardare al conforto dell’opinione pubblica, rendendosi in ogni
momento capace di affiancarla autorevolmente.
Tra le sue azioni, pone in essere un minimo sistema informativo, che tra l’altro non frutta grandi risultati.
Per il resto la sua organizzazione secondo piani e programmi (e soprattutto emergenze) non è degna di una
benché minima strategia permanente di credibilità. I fatti ci dicono che si è dimostrata assolutamente
assente, astratta e impraticabile, proprio sul terreno la sua azione tempestiva, su cui la sua funzione, non
quella delle numerose azioni repressive, dovrebbe esprimere una autorevolezza davvero capace di uscire
dalla routine e coordinare le forze in campo.
Manca (per le poche risorse umane, ma anche per le competenze) completamente nella capacità direttiva e
organizzativa sul terreno, non c’è una benché minima proiezione virtuosa, si propone solo occasionalmente a
dirigere con autorevolezza il coordinamento delle tante agenzie in campo.
Proprio nelle giornate campali, quelle giornate “olimpiche”, “eroiche”, attese o evitate, ma da temere per
anni, questo corpo dovrebbe rendere ingiustificabile in tutti sensi un cruciale impegno non routinario. Cioè
le garanzie del suo stesso esistere. La molteplicità degli impegni dovrebbe venir meno dalla generità avuta
proprio in quei giorni. Quando cioè dovrebbe aver acquisito e metabolizzato definitivamente, per la loro
drammatica fatidicità, ciò che è necessario, sapendo che in ogni attimo, ed in ogni gesto, si può
compromettere il valore del bosco, acquisito magari in un secolo.
Conclusioni
Il fuoco, l’incendio di quei giorni per il Monte Arci di tutti, dice che non c’è un territorio che vince o che
perde, e che se un territorio ha queste ferite strazianti perdiamo tutti. E quando ci sono queste giornate si
perde o si vince in un attimo. Davvero lo vogliamo dire, si perde in un attimo una vita, una vita di lavori,
una vita di investimenti, una di costruzioni, attrezzature, animali, cantieri, boschi etc.
Io credo che dobbiamo finalmente reagire proprio in questo territorio, dove al solito l’incendio ha messo a
nudo un spazio, su cui affondano molte buone volontà, ove l’allarme e la sensibilità dei volontari come me,
vuole mettere in campo. Solo un crudo dibattito ruvido quanto si vuole potrà rivelare gli sprechi, e
l’inconsistenza politica delle azioni apprestate, per ciò che si è visto e per ciò che non si sarebbe dovuto
vedere.
Evidentemente non si crede e non si deve, soprattutto non si vuole condurre, una polemica fine a se stessa,
ciò che preme è l’organizzazione e da essa occorre partire per definire il coordinamento cioè ”ordinare
insieme vari elementi in modo da costituire un tutto organico conforme al fine che si intende raggiungere”.
Ma organizzazione è organizzazione in più direzioni, del personale, dei mezzi, dei luoghi investiti da queste
funzioni.
C’è in particolare, una organizzazione educativa dei volontari. C’erano molti giovani a spegnere l’incendio,
dato straordinarimente positivo. Alla loro presenza, ai valori di cui essi possono essere veicolo e custodi,
dobbiamo dei doveri. Di fronte a manifestazioni di cui è capace l’umanità, più spesso di quanto si pensi,
quando si associano molte componenti fanno eroici i risultati.
Vorrei capovolgere la lettura che faceva il mondo tradizionale, quando temeva l’ira e le manifestazione
furibonde del fuoco in giornate campali come quelle dei giorni di luglio.
Se quella temeva il fato e la violenza che eruttava dalle viscere, le archetipiche energie ctonie del fuoco,
leggeva ante litteram, ciò che oggi compiono le digressioni logico matematica fanno invece coerenti, cioè le
catastrofi.
Se noi non riusciamo a capacitarci e a credere come possa esserci capitata una correlazione di variabili così
concomitanti da produrre il disastro che si è compiuto. È perché ci manca la visione della complessità. Essa
richiede azione costanti durature del lungo periodo, ma anche quelle quotidiane; non possiamo ritenere
incapace la comunità provinciale (fatto di istituzioni, aziende, uomini e natura), di scindere il composto
alchemico e indissolubile di queste variabili, nel breve quanto istantaneo periodo in cui si assume la
responsabilità.
Crediamo che questa sia solo una parziale striscia dei conseguimenti da raggiungere, che devono
letteralmente ridestarsi da tutto ciò che in tre giorni ha trasformato in fumo e cenere, le tante parole, i tanti
investimenti, la tanta poca tecnologia e soprattutto la tanta tantissima retorica svolta in questi ultimi trenta
anni.
Per i quali occorre sezionare secondo fasi, la identificazione dei pericoli derivanti dall’attività di
spegnimento dell’incendio. Così come la gestione delle dinamiche del personale e tecniche, la pianificazione
d’emergenza, la sicurezza delle squadre di soccorso, la manutenzione dei sistemi di protezione personale e
del territorio, il controllo e la revisione delle azioni organizzate anche dai volontari.
Riprendere ad avere la capacità del controllo delle distinte variabili, ciò che l’uomo è davvero in grado di
impedire, nel combinarsi tragico della loro miscela. Evitando ciò che la maggioranza (lo dice la canzone),
passa in giornate insensate come quelle di giovedì venerdì e sabato 23, 24 luglio.
Rifiutiamoci di credere alla favola del lasciar perdere, ormai è chiaro che tutto ciò fa solo gli interessi degli
incendiari. Siano essi dolosi o colposi, poco importa. Se c’è qualcosa che ci accomuna è il poco valore del
lavoro, della natura, del patrimonio non speso o speso male per procurare reddito e per produrre ossigeno alla
vita stessa.
Occorre superare su tutto, le stasi organizzative e l’improvvisazione, lo erano in passato, oggi lo sono
incredibilmente ancora. Le urla come le fiche al cielo della scultura di Ciusa, aspre e ancora più polemiche,
deplorano però rendono sempre irrevocabili l’impreparazione e l’impotenza del passato. Uno scandaloso
gesto non riproponibile, per gli incendi, noi crediamo che la riflessione possa una razionalità nuova, sul
terreno contro l’alto.
Mentre abbiamo un potenziale tecnologico, di risorse umane, professionali, utilizzate male, se non
malissimo. Non si capisce come si possa proteggere un monte che di per sè non ha confini, come si possa
ragionare ancora con i confini amministrativi, ci pare un segno drammatico, evidente delle difficoltà culturali
a percepire il bisogno di coordinamento delle forze in campo, nel predisporre piani adeguati. Che ci si
soffermi ancora su responsabilità amministrative di competenze separate, appare tragico. Ci pare che la
Regione deve significativamente proporre un modello, perché ogni montagna, ne ha uno, fatto di cultura,
geografia e storia, socialità che implica la corresponsabilità e una interdisciplinarietà delle azioni di tutti.
Prioritario diviene ribadire la compartecipazione coerente di tutti e doverosamente degli enti che operano
sulla montagna.
Nella fissità presunta di questa natura del fuoco, ancora medievale, occorre inserire le dinamiche e le
variabili dei nuovi algoritmi, ossia di tutte le mutevoli situazioni in campo che non possono essere pensate
come le stesse del passato.
Tanti cambiamenti, diretti ed indiretti specie nelle giornate in cui le condizioni meteo sono misurabili solo
sul terreno, che rimane anche a detta del sottosegretario Bertolaso, aldilà delle opinioni e delle polemiche,
pur sempre l’arma centrale per lo spegnimento.
Invece non lo possiamo negare, ma quanti credono ancora a tutto ciò? Quanto è realistica questa spiegazione,
su un territorio divenuto sconosciuto, impraticabile, insidioso, e non come in passato coperto da conoscenze
adeguate è possibile ritenere l’unico intervento possibile sia quello dall’alto? Servono piani, e soprattutto
competenze davvero attive e dinamiche per operare l’intervento a terra, possiamo credere che esse siano
proponibili come nel passato, anche quello recente?
Oziose e verbose considerazioni polemiche ? Può darsi, noi crediamo che occorra fare presto, la fondazione
di una nuova pratica strategica per prevenire lo spegnimento è fondamentale, non si può credere che siano
stati i soli Villurbanesi (per esempio) pur molto presenti ci mancherebbe, a spegnere l’incendio.
Non nascondiamoci (nella retorica pur facile) teniamo presente la cenere calda e il fumo in paese della notte
del 23, ad aver evitato un disastro più pesante, crediamo sia stato un vero miracolo, con cui si debba
ringraziare la provvidenza o la fortuna che stavolta ha avuto nel maestrale, la chiave risolutiva. Ma la
distruzione del territorio di Usellus, di Pau, di Villaverde può essere attribuita al caso? chi domina i
salvataggi e le sconfitte negli incendi, la popolazione, o gli sforzi generosi di giovani ed anziani ?
Io non lo credo. Io credo che il caso (88 ettari di territorio comunale arsi) ci offrano delle possibilità
fondative, che non possono essere più trascurate. Per chi i danni non li ha sfiorati (80 ettari, su 2500 ettari
non sono pochi) e per chi i danni li dovrà registrare per anni.
Oggi per il monte serve una nuova intelligenza sociale.In questa cultura che va oggi sostituita, il Monte, è
ancora un mito, sempre meno la speranza di un riscatto, lo vediamo mentre si presenta di fronte al fuoco,
stancamente e distrattamente impreparato, divenire presto cenere. Incolpevole, abbandonata, risorsa ormai
decadente, per tutti. Siano esse istituzioni preposte, dipendenti dalla sue sponde alberate, dai suoi larghi
fianchi generosi di giornate lavorative, da coloro i quali lo stuprano con per il legnatico vorace, sia per quelli
che su di esse versano brame differenziate di tutti i tipi, sia per noi accorsi allo spegnimento.
Anche gli uomini, ah gli uomini, come tanti mostrano e arrancano nella fatica della crisi economica e sociale,
arrancano anche e soprattutto sul piano delle idee, della cultura e della condizione esistenziale, al Monte
sono immensamente disattese le loro energie intellettuali. A parte forse pochi che con la modernità non
subiscono palingenesi deformanti del loro essere, gli uomini sono sempre gli stessi, indomiti a qualsiasi
organizzazione, verbosi, queruli, neghittosi ad ogni coordinamento, di fronte al fuoco non tutti possono
esprimere soltanto l’impotenza.
Tra questi i Pastori, che lentamente divengono imprenditori, ma non custodiscono, essendo pochi e sparuti
una strategia di insieme, aziende e territorio. Ove gli animali sono più curati nella loro funzione produttiva,
lo sono meno in quella con cui dovrebbero per loro e per il loro benessere, meritare tutela e disponibilità
degli spazi. Non tocca a loro disporre sempre e cioè stabilmente, una organizzazione ed un coordinamento,
davvero federato della difesa delle proprie aziende e greggi? Concreto o almeno dinamico quanto
tempestivo? Nel contempo evitare (per loro come per chiunque) che con gli incendi si aggiunga al danno
anche la beffa, delle avide speculazioni inflazionistiche sui mangimi.
I cacciatori forse i pochi che veramente praticano il monte, gli unici davvero motivati e creativi di volontà e
di mezzi (soprattutto privati), meno popolo bue, di quanto si dica. Custodiscono la didattica del monte, con le
sue toponimie, le sue sagome naturalistiche, le sue vive creature. Elaborano, perché vivi, giorno per giorno
dinamiche del tempo, dei luoghi, della vegetazione, della selvaggina, della vita tutta del Monte. Peccato che
nelle piccole comunità non si traduca in istanze assolutamente ragionevoli, in loro crediamo sia rimasta pur
su una traccia labile, il germe di una nuova cultura della tutela del monte .
Nessuno pare colga le funzioni che per il monte appaiono diverse rispetto al passato. La sua frequentazione
oggi ha un altro senso rispetto a prima, i cacciatori la registrano tutti i giorni, di fronte all’emergenza
dovrebbero essere più ascoltati e considerati, oltre le urla, io sono fiducioso che essi possono qualificare una
vita nuova e migliore per il monte, per la sua salvezza. Dalla socialità e interesse che costantemente
dimostrano, fino alle azioni sensate per la tutela del terrtorio.
Parliamo di un patrimonio di conoscenze dove pochi hanno mostrato davvero la capacità di guardare alle
trasformazioni sociali, con cui oggi il monte è vissuto, senza più nostalgie e senza più pietismi. Avanzando
alcune istanze davvero moderne per questi luoghi, essi potrebbero proporli in tutti i sensi, come avamposti di
civiltà.
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