Data 18/11/2006 12:21:40 | Categoria: Politica nazionale

Elogio di Visco, il più odiato dagli italiani
Irsuto e scontroso, ha accettato il lavoro più antipatico, ma necessario: trovare i soldi per ripianare il debito
di Salvatore Bragantini
Se Lorella Cuccarini si reclamizzava come la più amata dagli italiani, il meno amato è forse Vincenzo Visco, viceministro dell’Economia con delega fiscale. È lui la bestia nera della destra che tenta la spallata, e forse molti anche a sinistra non lo amano: è il destino di chi fa sul serio il proprio mestiere nel nostro Paese.
A lui, come collettore di entrate, spetta un ruolo chiave nella legge Finanziaria per il 2007, sulla quale si fa troppa confusione. Domandiamoci dunque: questa legge è troppo morbida, come dicono le agenzie di rating che hanno "peggiorato" il voto alla Repubblica italiana, o è invece troppo dura, come sostengono (con strana, ma ahimé non nuova, coincidenza di comportamenti) tutta l’opposizione e parte della maggioranza? E come può il Polo plaudire al duro giudizio delle agenzie di rating, le quali affermano l’esatto contrario di quanto esso va vociando nelle piazze, quelle esagitate della tv o quelle meste di ombrelli di Vicenza? Qual è il reale significato della Babele delle lingue intorno al rito autunnale della Finanziaria?

La risposta sarebbe lunga e la sintetizzo così: la legge risana i conti pubblici del 2007, seppure con una acrobazia sul tfr, e dedica una buona dose di risorse allo sviluppo del Paese, senza il quale non si assorbe il nostro debito pubblico. Essa però non pone ancora le basi di una profonda riforma dell’amministrazione e della spesa e affronta solo in parte il nodo dell’aumento della produttività. Non sono leciti, insomma, né trionfalismi, né urla di dolore.
Perché allora la reazione da bestia ferita che rimbalza dal grosso dei media? Essi riportano con rilievo, più volte, i commenti negativi dell’Economist del 6 ottobre, tacendo quelli positivi dello stesso settimanale, il 20 ottobre. Perché? La verità è che siamo davanti alla rivolta, tanto più gridata quanto meno è confessabile, di una melassa di interessi che aspira a usurpare il nome di classe dirigente. Come un bimbo viziato, la melassa recalcitra al pensiero di dover sopportare un basto che tutti i Paesi civili portano senza gioia, ma con dignità, perché è la base del contratto sociale: il pagamento delle tasse. E una parte della sinistra è talmente lontana dalla realtà che si presta pure a fargli da cassa di risonanza.
Il grido no taxation without representation fu la scintilla della grande rivoluzione liberale americana. Data la vastità del fenomeno dell’evasione fiscale, le ingiustizie e le distorsioni che alimenta nella nostra vita civile, verrebbe perfino la tentazione di girarlo nel suo inverso: no representation without taxation. Ma così non va, vorrebbe dire tornare agli albori della democrazia, quando votavano solo i ricchi…

Non è questo lo spazio per esporre in dettaglio i contenuti della legge Finanziaria che i lettori seguono nelle sue quotidiane evoluzioni (ci sono sempre state, quando va in scena la Finanziaria); qui ha senso cercare di capire le ragioni di quanto sta avvenendo. Va ricordato che lo stato dei conti pubblici, dopo il quinquennio berlusconiano, è lacrimevole.
Il punto chiave non è la tanto discussa incidenza del deficit annuo sul Pil, il famoso 3 per cento di Maastricht, che si può anche sforare, a certe condizioni, senza creare grande allarme. Il vero problema è la mancata crescita che rischia di rendere insopportabile il debito accumulato, somma dei deficit di tanti anni, che supera ormai il 108 per cento del Pil. È questa massa di debito, simile a un ghiacciaio sospeso che potrebbe sciogliersi di botto, a turbare i sonni. Ricordiamo agli smemorati che il mostro è cresciuto dal 60 per cento al 120 per cento del Pil negli anni Ottanta, quelli della Milano da bere messa in crisi dai cattivoni della locale magistratura.
Se il mercato finanziario si dovesse malauguratamente convincere che l’ordinato servizio del debito è improbabile, le conseguenze per i conti dello Stato sarebbero micidiali: decine di miliardi (di euro) di maggior costo degli interessi passivi sul debito, qualcosa che dovrebbe terrorizzare anche Marco Rizzo o Franco Giordano. Anche uno Stato sovrano, se ha troppi debiti, non può infischiarsene dell’opinione dei suoi creditori: è un lusso da ricchi. Chi non vuole subire questo giudizio, deve evitare di fare tanti debiti. Se li ha accumulati, non può sfuggire all’esame giornaliero.
L’unica via per tener tranquilli i creditori, che poi in parte sono anche i cittadini italiani, è mostrare di poterli ripagare. Cioè avere un saldo primario dei conti pubblici in attivo. Il saldo primario è la differenza fra le entrate dello Stato e le sue spese, prima del conteggio degli interessi; quando il saldo è attivo, si parla di avanzo primario. Se il saldo è negativo, o se l’avanzo è troppo piccolo, il debito totale aumenta. Se l’avanzo è abbastanza grande, si hanno risorse per pagare almeno gli interessi e così evitare la crescita del debito, o addirittura farlo scendere.
Il quinquennio di centrosinistra si chiuse con saldi primari compresi fra il 3 e il 4 per cento, a seconda di come si valuta il "buco" lamentato da Tremonti nel 2001. Lui e i suoi sodali l’avanzo l’han ridotto a zero, per la precisione allo 0,6 per cento del Pil. Logico che la manovra della Finanziaria, che riporta per il 2007 l’avanzo primario al 2 per cento, non susciti gridolini di piacere, ma bisognava farlo.
Dove erano tanti Soloni che oggi danno lezioni di rigore finanziario, quando questo avanzo primario veniva sperperato facendo crescere la spesa di oltre il 2 per cento del Pil? Il tutto senza ottenere almeno, in cambio, quelle misure di razionalizzazione e di aumento della produttività che oggi il governo di centrosinistra dovrebbe estrarre dal cilindro. Urgono, questo è vero, riforme profonde, le sole a produrre diminuzioni durevoli della spesa, che però richiedono tempo.
Il modo preferibile per ridurre il peso del debito sul Pil è far crescere il Pil. Di qui l’enfasi della Finanziaria sulle misure per la crescita. Date le premesse, però, i soldi disponibili sono pochi; ecco che lo sviluppo vero deve venire dai programmi d’investimento delle imprese. La melassa però non ne ha voglia. Non resta, ahinoi, che aumentare le tasse.
Opera ciclopica, perché il punto non sono solo le tasse, ma le basi stesse della convivenza civile. Bisogna disfare con pertinacia la tela di Silvio Berlusconi, che ha rafforzato negli italiani l’atavica convinzione che le tasse siano un furto, un "mettere le mani nelle loro tasche". Far capire che le mani, nelle tasche dei cittadini corretti, le mettono gli evasori, facendo gravare solo sui primi le tasse, che andrebbero invece divise secondo legge ed equità: è come se il componente di un’ampia famiglia, dove si fosse deciso di fronteggiare le spese mettendo in comune i redditi di ognuno, nascondesse invece i suoi, tenendoli per sé e gravando sugli altri. Costoro si chiamano, nel gergo degli economisti, free riders, quelli che viaggiano gratis, utilizzando un servizio che sono altri a pagare.
Bene fa Pierluigi Bersani a ricordare a Flavio Briatore (uno dei manager più considerati dagli italiani, pare, insieme a quell’altro guru di Lapo Elkann!) che pagare le tasse è un dovere: chi a esso si sottrae (in Italia, in Gran Bretagna o in Abkazia) andrebbe sottoposto a un esame di cittadinanza, come quello che si vuol chiedere agli immigrati per mostrare che condividono i valori della società (gli faranno anche recitare l’Ave Maria?).
Resta il lavoro oscuro e antipatico per trovare i soldi, denso di astrusità tecniche, affidato a Visco. È al suo profilo grifagno, al suo look da professore che non fa sconti agli studenti che il governo ha affidato questa parte. Visco conosce bene i meccanismi della macchina fiscale, come nessun altro la maneggia, facendo capire ai cittadini che il governo fa sul serio: questi, l’abbiamo visto, abbozzano e pagano.
La sua è una parte sgradita a tutti, per la quale l’uomo è portato come pochi: irsuto e scontroso, non si cruccia per questo, quasi finge di gradirla. Sa bene che far pagare le tasse rende antipatici, ma qualcuno deve pur farlo. Anche Ezio Vanoni solo da morto è diventato il grande Vanoni; era infatti un ministro delle Finanze serio. Visco può sperare di godersi un po’ di popolarità su questa terra (non farebbe schifo neanche a lui): dovrà riuscire a ridurre l’evasione italiana a livelli simili a quella degli altri Paesi europei. Non tutti, certo, ma molti apprezzeranno.
C’è poi il problema della scarsa capacità di comunicazione del lavoro del governo, dove Visco non dà il meglio di sé, ma non è il solo: bisogna spiegarsi con pazienza, i cittadini non sono premi Nobel per l’economia. E non serve un Nobel per produrre due tabelle semplici e chiare da mostrare in tv, che illustrino graficamente le componenti della manovra e come sono stati ripartiti i sacrifici; ricorderebbero a tutti che il risanamento non è una passeggiata.

Questo non giustifica le reazioni della melassa che si finge classe dirigente; essa chiede al governo una determinazione che Berlusconi, con ben altra maggioranza, non ebbe. Si finge di ignorare che la maggioranza di due senatori è figlia della "porcata" di Calderoli, la legge elettorale che è il lascito peggiore del Cavaliere. Dove erano i nostri grandi capitani, quando la "porcata" maturava in Parlamento? Se avessero avuto a cuore l’interesse generale, avrebbero dovuto parlare allora, quando la volontà referendaria dei cittadini veniva calpestata. Ora il danno è fatto, e sarà dura rimediarlo.
Nessuna sorpresa, d’altronde, per chi sappia come i capitani gestiscono le imprese, cioè la cattedra dalla quale lanciano moniti gravidi di pensosa preoccupazione sul futuro a lungo termine del Paese, che essi, tranne poche belle eccezioni, identificano tout court col loro comodo personale immediato. Per costoro, le "loro" imprese sono come una tasca della giacca, anche quando la maggior parte dei soldi l’hanno messa gli altri. Attaccano la scarsa flessibilità del lavoro, ma se le imprese non crescono, la ragione sta nell’inflessibilità del capitale: per poter crescere, dovrebbero dividere potere e utili con altri. Così, stando ferme, anche imprese splendide deperiscono. Sono miopi, non sanno nemmeno calcolare bene il proprio interesse, e vorrebbero insegnare ai disprezzati politici come fare un mestiere ancor più difficile del loro.
Di questa nobile materia è fatta la Balaklava cui in queste settimane assistiamo. Per questo Romano Prodi e la sua squadra devono "riformare il capitalismo italiano", per renderlo più simile a quello di Schumpeter. Conforta sapere che il nostro è un diesel al teflon; forse non raggiunge i 14 mila giri della Ferrari di Schumacher (non Schumpeter), ma condurrà in porto la bistrattata Finanziaria, nell’interesse del Paese. Valicata questa cruciale scadenza, nel 2007 arriveranno le riforme vere; la melassa, che oggi le esige, si opporrà con vigore. Sarà un bel match, ma un altro match.



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