Premessa
L’invasione militare della Grecia, a
pochi mesi dall’entrata in guerra dell’Italia, fu ordinata il 28 ottobre 1940
da Mussolini, spinto da velleità imperialistiche e dal bisogno di un immediato
successo bellico e politico.
Gli attacchi sferrati dalle truppe
italiane, male equipaggiate e mal dirette, furono ripetutamente bloccati: nella
primavera del 1941 i soldati Italiani furono costretti a ritirarsi rendendo necessario
l’intervento tedesco.
Giuseppe Sassu partecipò, insieme a
tanti altri valorosi soldati italiani, alla guerra sul fronte greco-albanese.
Nel seguito si riporta il suo
racconto.
Dal diario del Soldato Giuseppe Sassu
Sono nato ad Atzara (NU) il 9 maggio 1919.
Sono il secondogenito di una famiglia
di dodici figli, sei femmine e sei maschi.
Il tipo di educazione e gli
insegnamenti che ricevetti dai miei genitori furono sempre ispirati ai valori
cristiani, al rispetto del prossimo ed alla solidarietà.
Ricordo con nostalgia la mia infanzia
vissuta spensieratamente e senza tanti lussi nel mio paese, i cui abitanti,
erano quasi completamente dediti all’agricoltura (soprattutto viticoltura) ed
alla pastorizia.
Come tanti miei coetanei, all’età di
16 anni, partecipai al “Campeggio Dux” che si svolse a Roma nel 1935.
Avevo venti anni quando dovetti
lasciare Atzara per servire la mia patria.
Fui richiamato il 25 ottobre 1939 e
dovetti raggiungere la Scuola Allievi della Guardia di finanza di Roma.
Dopo una permanenza di circa tre mesi
a Roma, per completare l’addestramento, fui inviato per altri tre mesi in
Trentino dove frequentai la “Scuola Alpina di Predazzo” e partecipai ad un
corso teorico pratico per sciatori che si teneva al Passo Rolle.
Quindi, nominato Finanziere, fui
assegnato alle attività di istituto della Guardia di Finanza presso l’aeroporto
“Idroscalo” di Brindisi.
Dopo circa un mese trascorso a
Brindisi fui chiamato nelle file del 1° Battaglione Mobile della Guardia di
Finanza per effettuare un periodo di addestramento itinerante durato circa sei
mesi.
Durante questo periodo, con le truppe
del 1° Battaglione Mobile, attraversai quasi tutta l’Italia partendo da Carsoli, in Abruzzo, per raggiungere
Tarvisio, in Friuli.
Prima di lasciare l’Italia ricordo
che partecipai ad una parata militare a Roma.
Sfilammo da Via dei Fori Imperiali
sino a Via Nazionale.
Arrivati nei pressi di Piazza Esedra
fummo acclamati da una folla festante.
Ricordo che, verso la fine della parata,
un sacerdote ci distribuì un’immaginetta sacra con una preghiera.
Quell’immaginetta io la tenni sempre
con me durante tutta la mia avventura in Albania.
Dopo la parata a Roma fummo inviati a
Bari per essere poi imbarcati per l’Albania.
Ricordo che ci accampammo nella
periferia di Bari, presso il cantiere in cui erano in corso i lavori per la
realizzazione della famosa Esposizione “E 42” tanto voluta da Mussolini ma
ultimata con parecchio ritardo dopo la fine della guerra.
Era precisamente il 2 dicembre 1941
quando, insieme ai militari del 1° e del
2° Battaglione Mobile della Guardia di Finanza, sbarcai nel porto di
Durazzo per poi raggiungere il fronte greco.
Da Durazzo in pochi giorni di marcia,
passando da Tirana, da Elbasan e da Gramsh, attraversammo la regione centrale
del territorio albanese per raggiungere il fronte greco presso la catena
montuosa del Tomor.
Ricordo che durante la marcia, dopo
aver superato la città di Gramsh, una notte ci accampammo presso alcuni
capannoni che avevano già ospitato altre truppe italiane in transito.
Purtroppo eravamo ignari del fatto
che, qualche mese prima, all’interno di quelle costruzioni erano stati
ospitati, non solo gli alpini italiani, ma anche i loro muli.
Per rendere più morbidi e
confortevoli i nostri giacigli, ci venne la sciagurata idea di utilizzare della
paglia che doveva essere stata precedentemente a contatto con i suddetti muli.
Ben presto ci ritrovammo
completamente infestati da numerosissimi pidocchi.
Inoltre, poiché stavamo per raggiungere le vette della catena montuosa del Tomor (la cima più alta è il Tomorit: 2.417 mt), per proteggerci dal freddo ci fu ordinato di indossare tutti gli indumenti pesanti in dotazione.
Ricordo che io dovetti indossare: due
maglie di lana, due camicie, due mutandoni lunghi di lana, i pantaloni, il
giaccone militare e il passamontagna.
Pertanto, con tutti quegli indumenti
indosso, era assolutamente impossibile liberarsi di quei fastidiosissimi pidocchi che mi
accompagnarono per tutto il restante periodo trascorso sulle alture del Tomor.
Sempre durante il tragitto ricordo
anche che, quando eravamo oramai giunti alla nostra destinazione, ci diedero
notizia dei primi caduti.
Si trattava di due Ufficiali del 2°
Battaglione che ci aveva preceduto al fronte.
Il Capellano militare, in quella
notte di luna piena, ci radunò tutti e ci comunicò che, durante i primi scontri
con le truppe greche, erano caduti il Capitano Smalto ed il Tenente Mattiello.
Proprio mentre eravamo radunati in
assoluto silenzio sfilarono, di fianco a noi, le salme dei due Ufficiali che
venivano trasportate a valle.
Subito dopo il Capellano ci fece
inginocchiare e ci benedisse.
Il giorno 9 giugno 1941 raggiungemmo
il fronte greco e, congiuntamente alla Divisione “Julia” degli Alpini, ci
attestammo presso la catena montuosa del Tomor sul fronte greco.
Ci trovammo ben presto sotto il fuoco
nemico.
Ricordo che i colpi di mortaio,
quando cadevano a pochi metri da noi, sollevavano pesanti zolle di terra che ci
ricadevano addosso quasi seppellendoci.
Dopo uno scontro durissimo con le
truppe Greche, durato circa 4 giorni, registrammo una schiacciante sconfitta in
data 13 dicembre 1941.
Dai 1.000 uomini che eravamo,
riuscimmo a contare solamente 78 superstiti.
Una mattina, durante le operazioni di
ripiegamento delle nostre truppe, ricordo che il cielo, parzialmente coperto
dalle nuvole, ogni tanto si lasciava attraversare da dei luminosissimi raggi di
sole. Noi marciavamo incolonnati e davanti a me, a circa cinque, sei
metri, marciava il Maresciallo Manca,
anche lui proveniente dalla Sardegna. A un certo punto io e i miei compagni
fummo costretti ad attraversare un breve tratto che ci esponeva al fuoco
nemico. In particolare in quel tratto la nostra ritirata era protetta solo da
un alpino che, nascosto all’interno di un capanno di pastori, sparava in
direzione del fronte greco con una mitragliatrice “Fiat”. I colpi di quella
mitragliatrice risuonavano senza interruzione in tutta la vallata da diverse
ore. Proprio in quei momenti, improvvisamente, il Maresciallo Manca fu colpito
al collo e cadde come fulminato. Io mi avvicinai strisciando per tentare di
soccorrerlo ma non ci fu niente da fare. Ricordo ancora che un intenso raggio
di sole illuminò il suo volto facendo luccicare le lenti piccole e rotonde dei
suoi occhiali.
Mentre imperversava un rigido
inverno, insieme agli altri militari sopravvissuti, ci trovammo senza
rifornimenti e isolati dalle altre truppe italiane.
La nostra posizione era molto
sfavorevole, infatti: da un lato eravamo circondati da montagne impervie e
impraticabili e dall’altro vi era un fiume con le truppe nemiche che aprivano
il fuoco ad ogni nostro tentativo di attraversarlo.
Quindi fummo costretti ad attestarci
in località Barja e Dobrej in attesa di eventi più favorevoli.
Questo periodo di isolamento forzato
durò circa tre mesi.
Per dormire ognuno di noi scavava un
giaciglio nella neve e per scaldarci ci stendevamo l’uno vicino all’altro.
Durante questi tre mesi ci nutrimmo
quasi esclusivamente di granoturco e, fortunatamente, riuscivamo a dissetarci
scongelando la neve e il ghiaccio che recuperavamo facilmente sulla montagna.
Fra i miei compagni di avventura
ricordo il Soldato Piga originario di Armungia (CA), il Soldato Ragno di
origine Emiliana, il Soldato Guarlaschelli e il Soldato Panebianco.
Ricordo che un giorno, scavando fra
la neve, trovammo i resti congelati di un mulo.
Per noi fu l’unico giorno in cui
mangiammo carne, anche se cruda (vista l’impossibilità di accendere fuochi).
Purtroppo la festa non durò a lungo poiché, dopo tanti giorni di digiuno,
nessuno di noi riuscì a digerire un pasto così sostanzioso che causò notevoli
problemi al nostro apparato digerente.
Questo periodo di isolamento finì
quando le truppe tedesche, inviate da Hitler per occupare la Grecia, sfondarono
il fronte ed ebbero ragione della resistenza opposta dai soldati Greci.
A questo punto potemmo lasciare le
alture dei monti Tomor.
Io mi trovavo in precarie condizioni
fisiche a causa del lungo digiuno e delle numerose infezioni intestinali
patite.
Pertanto i miei superiori disposero
il mio trasferimento in Albania e fui ricoverato nell’Ospedale di Scutari.
Nell’Ospedale di Scutari ricevetti
tutte le cure necessarie e fui, finalmente, liberato anche dai pidocchi.
Era il mese di maggio del 1942
quando, terminato il periodo di ricovero in Ospedale, fui assegnato al servizio
di istituto della Guardia di Finanza presso la caserma “Tarabosh” nella città
di Scutari.
Mi venne assegnata la mansione di
addetto al servizio sussistenza.
In pratica mi occupavo del prelievo
delle razioni alimentari dal deposito centrale di sussistenza per poi
trasferirle al nostro deposito di circoscrizione. Le suddette razioni viveri
dovevano soddisfare, sia il fabbisogno dei militari effettivi, sia il
fabbisogno dei militari di passaggio.
In questo periodo, che durò per oltre un anno,
non riuscivo a restare indifferente davanti alle molteplici situazioni di sofferenza
del popolo albanese che constatavo quasi quotidianamente.
Pertanto, anche se ciò comportava per
me il rischio di un provvedimento disciplinare, ogni volta che mi si presentava
una favorevole occasione, tentavo di distribuire generi alimentari alla
popolazione locale che appariva sempre più affamata e indigente.
Anche se le quantità di cibo che
riuscivo a distribuire erano assai modeste, consentivano di apportare un seppur
minimo sollievo a delle persone che non disponevano di null’altro per la loro
sopravvivenza.
Inoltre, ritenevo che questi piccoli gesti
di solidarietà potessero contribuire anche a sollevare l’animo di quelle
popolazioni già così duramente colpite.
Fu proprio in queste occasioni che
ebbi modo di approfondire la conoscenza di diverse famiglie della comunità di
Scutari nonché della lingua e degli usi e costumi dell’Albania.
Le persone che conobbi erano,
generalmente, onesti lavoratori che trascorrevano la loro esistenza con grande fierezza
e dignità nonostante le condizioni di estrema povertà in cui vivevano. Anche le
donne erano delle grandi lavoratrici e, talvolta, eseguivano anche lavori molto
pesanti.
Ricordo la famiglia Vòlaj, la
famiglia Nurja, la famiglia Simoni, la famiglia Gaz ed una comunità di zingari
che viveva assai precariamente in prossimità del nostro quartier generale.
Purtroppo in breve tempo, gli eventi
storici di quel periodo, non mi consentirono più di circolare liberamente in
Albania.
Infatti: il 25 luglio 1943, Mussolini
fu destituito e fatto arrestare dal re, che nominò capo del governo il
maresciallo Badoglio; il nuovo governo italiano
tolse il proprio appoggio al progetto di conquista della Germania di
Hitler; Mussolini fu liberato dai tedeschi e divenne un semplice strumento
nelle mani di Hitler che lo pose alla guida della Repubblica sociale italiana
di Salò (Regime collaborazionista instaurato nell’Italia settentrionale
controllata dai tedeschi); l’Italia risultò divisa: a Nord i nazifascisti con
la repubblica di Salò e a Sud le forze angloamericane che avevano occupato gran
parte dell’Italia meridionale; l’ 8 settembre 1943, il Generale Badoglio firmò
l’armistizio con le forze angloamericane.
In quel periodo, i soldati tedeschi,
che a questo punto ci consideravano dei traditori, effettuavano dei frequenti
rastrellamenti per catturare i soldati italiani presenti in Albania e avviarli
presso i loro campi di concentramento.
Talvolta, molti dei nostri soldati catturati
non riuscivano neanche a raggiungere le suddette destinazioni poiché i tedeschi,
molto sbrigativamente, provvedevano a fucilarli prima.
Quindi, noi soldati italiani
abbandonati in Albania, fummo costretti a vivere nascostamente confondendoci
fra la popolazione locale per non essere catturati dai militari tedeschi.
Anche io, come tanti altri soldati
italiani, fui catturato, una prima volta, dai soldati tedeschi presso Scutari.
Fortunatamente la mia prigionia durò
solo un giorno.
Infatti, approfittando di un momento
di confusione che si era creato in carcere, riuscii ad eludere la sorveglianza
dei soldati tedeschi e fuggii durante la notte.
Dopo la fuga mi rifugiai presso la
famiglia Vòlaj nel villaggio di Shiroka.
Il villaggio di Shiroka è assai noto
agli albanesi poiché era il luogo prescelto dall’ex Re d’Albania, Zegu, per
trascorrere i suoi periodi di villeggiatura (prima dell’invasione italiana avviata
da Mussolini il 7 aprile 1939).
Infatti, nonostante i numerosi
saccheggi, a Shiroka si ritrovava ancora, strutturalmente intatta, la famosa
villa dell’ex Re Zegu.
La famiglia Vòlaj si ricordava di me
poiché qualche tempo prima, quando prestavo servizio come addetto al
rifornimento viveri, avevo distribuito loro alcuni pacchetti di zucchero.
Ricordo che la famiglia che mi
accolse nella propria casa era costituita da una vedova di nome Giustina, un
figlio di nome Noçj e le figlie Agatina e Marta.
Il tipo di accoglienza che mi fu
riservata mi commosse.
Dopo la mia fuga venni contattato da
alcune autorità albanesi che mi proposero di prestare servizio nel Corpo dei
Finanzieri Albanesi.
Io accettai pensando che in tal modo
fosse più difficile essere catturato dai tedeschi ma, proprio durante lo
svolgimento della mia nuova attività, fui nuovamente arrestato.
Questa volta fui interrogato a lungo
dai tedeschi anche in presenza di un interprete.
Successivamente, forse poiché
scambiato per una spia, fui imprigionato nel Carcere “Skanderberg” in una cella di isolamento.
Il carcere dove venni imprigionato
era denominato “Skanderberg” in onore al famoso patriota albanese Giorgio
Castriota Skanderberg che, circa 500 anni prima, combatté per la libertà
dell’Albania contro i Turchi, che poi lo riconobbero Principe di Albania e
dell’Epiro.
Dal carcere “Skanderberg” fu disposto
il mio trasferimento ad un vicino campo di concentramento.
Il trasferimento fu effettuato a
piedi e sotto scorta armata durante la notte.
Mentre camminavo incolonnato insieme
agli altri prigionieri, io finsi di zoppicare in modo da rallentare la marcia e
restare indietro, quando riuscii ad allontanarmi di qualche decina di metri, mi
voltai e fuggii a perdifiato nei bui viottoli di Scutari.
Ritengo che questo sia stato il
momento più drammatico della mia avventura in Albania. Infatti, se i soldati
tedeschi si fossero accorti del mio tentativo di fuga, non avrebbero di certo
esitato ad aprire il fuoco.
Anche questa volta trovai rifugio
presso la famiglia Vòlaj nel villaggio di Shiroka.
Ricordo che molto spesso, durante la
notte, si udivano sparatorie e colpi di mitra.
In particolare, una notte i soldati
tedeschi, che occupavano un accampamento non molto distante dal mio rifugio,
catturarono un notevole contingente di soldati italiani.
I militari tedeschi, forse in difficoltà per sistemare un numero così
elevato di persone, urlarono per diverse ore quasi sempre le stesse parole fra
le quali ricordo: “Rauss, rauss, schnell, shnell, …..”.
Poi, improvvisamente si sentirono
risuonare, per degli interminabili minuti, delle raffiche di mitra a cui seguì
un angoscioso silenzio.
Io e i miei amici albanesi ci
guardammo a lungo increduli con orrore per quanto era avvenuto a così poca
distanza da noi.
Durante questo periodo, in cui vivevo
nascostamente presso la famiglia Vòlaj, dovetti adattarmi a svolgere diversi
tipi di mestieri: carrozziere, muratore, imbianchino, falegname, calzolaio,
pastore e contadino.
Quando facevo il carrozziere
trasformavo, insieme a degli amici albanesi, dei camion militari abbandonati
dai soldati italiani in autoveicoli per trasporto di persone.
Il mestiere che mi riusciva meglio
era quello del falegname.
Infatti, riuscii a realizzare
numerose manufatti, quali ad esempio: armadi, comodini, sedie, scaffali, porte,
finestre e anche alcune bare.
I proventi del mio lavoro di
falegname erano sufficienti al mantenimento mio e dell’intera famiglia Vòlaj
che mi aveva accolto.
Trascorsi in quel modo tutto il periodo
che restava fino al termine della guerra.
Fui catturato anche una terza volta
dai tedeschi ma, grazie ad una certificazione rilasciata dal Sindaco di Scutari
che mi equiparava ai cittadini albanesi e grazie anche alla mia capacità di
esprimermi in lingua albanese, venni rilasciato dopo qualche ora.
Dopo un breve periodo di quarantena,
il mese di giugno del 1945, lasciai l’Albania.
Durante il viaggio di ritorno
attraversai il canale di Otranto a bordo di una zattera di legno condotta da
dei militari Inglesi. Sicuramente in
condizioni anche peggiori degli attuali profughi.
Al mio rientro in Italia fui
ricoverato nell’ospedale di Cagliari poiché notevolmente debilitato dalla
malaria e da un’infezione intestinale.
Il 1° e 2° Battaglione della Guardia
di Finanza furono decorati con la medaglia d’oro.
Io, una volta ristabilito, ritornai
alla vita normale nel mio paese di origine.
Al mio rientro ad Atzara, sostituii
gradualmente mio padre nella sua attività lavorativa (della quale mi occupo
ancora).
Mi sposai dieci anni dopo il mio
rientro: il 25 giugno del 1955.
Dopo oltre cinquanta anni di felice matrimonio, ho avuto tre figli, ormai adulti e indipendenti, e quattro nipotini.
Adesso ho 86 anni, trascorro molto
serenamente tutte le mie serate in campagna, presso un vigneto di cui mi occupo
personalmente.
Sono stato spinto dalle continue
insistenze dei miei figli e dei miei nipoti a trascrivere questo mio periodo di
vita trascorsa durante la guerra.
Spero che quanto trascritto possa arricchire,
non solo la loro conoscenza della storia del nostro paese, ma soprattutto la loro capacità di: non
scoraggiarsi mai davanti alle difficoltà, arrangiarsi sempre, essere pazienti,
essere generosi, non essere mai superbi e avere sempre grande rispetto del
nostro prossimo.
Sorgono lì 10 ottobre 2005